La confermazione di Renzo

In occasione dell’anno manzoniano 1985, il settimanale Il Sabato pubblicò a dispense il volume, riccamente illustrato, dal titolo “Gli eroi del Manzoni”. La pubblicazione, sostenuta dalla Banca Popolare di Lecco, dal Comune di Milano e da Regione Lombardia, e curata da Giuseppe Frangi, Anna Tagliavini e Maria Tosetto, contiene testi di Giovanni Testori, Carlo Bo, Ferruccio Ulivi, Geno Pampaloni, Mario Pomilio, Italo Alighiero Chiusano. E’ illustrata da immagini dei pittori lombardi Giacomo Ceruti e Carlo Ceresa e dalle fotografie di Carlo Meazza. Quello che segue è il contributo di Testori.

E’ probabile che il tragitto che Renzo e Lucia compiono lungo l’intero arco del romanzo, sia leggibile e definibile come “iniziazione”, anzi, attesa la loro totale appartenenza alla verità cristiana, la stessa da cui si origina e in cui s’iscrive l’opera suprema del Manzoni, potremmo arrischiarci a dire che il loro tragitto risulti un approfondimento e una dilatazione (nel tempo), dunque una dolente magnificazione, di quel Sacramento che suol definirsi coi due nomi paralleli: Cresima o Confermazione.

Naturalmente per la dura, disperante prova di Renzo e Lucia sceglieremmo la denominazione seconda. Così se il primo termine “iniziazione” può rammentare qualcosa della ritualità pagana, il secondo par completare il primo e offrirgli la testificazione di un passaggio di conoscenza e di coscienza attraverso la storia e in tal modo la risolve in una dimensione plenariamente umana. Questo non significa affatto che i due protagonisti mutino le loro nature e i loro caratteri: significa che essi li conoscono e, per dir così, li temprano nello scontro con le difficoltà e, ciò che più conta, nello scontro col male che opera dentro lo spazio ed il tempo.

E’, in effetti, difficile trovare, nella letteratura un personaggio che, come Renzo, affrontando una così lunga e drammatica prova “iniziatica” (“iniziatica” circa il suo farsi completamente uomo), una così lunga e drammatica prova “confermativa” (“confermativa” in rapporto alla fede, all’amore e, in totale, alla storia e alla vita) ci si presenti alla chiusura del romanzo, tal quale l’avevamo conosciuto all’inizio.

La maturazione avvenuta, tramite la prova, non ha scalfito, insomma i suoi tratti: si direbbe anzi che li abbia potenziati; anche nelle loro ombre e nelle loro debolezze. Al proposito basti ricordare l’episodio del Lazzaretto, quando, parlando con Fra Cristoforo di Don Rodrigo, Renzo si lascia un’altra volta sopraffare dall’odio ed esplode in un desiderio vendicativo, anzi, per essere più chiari, in un desiderio omicida ( e d’una brutalità cupamente fisiologica) ben più estremo e impressionante di quello che l’aveva investito, sempre nei riguardi del persecutore di Lucia, nel secondo capitolo: quando cioè viene a conoscerne il nome dalle labbra vili e tremebonde di don Abbondio.,

Penso che sull’importanza dell’episodio del Lazzaretto, proprio perché posto lì, quasi a conclusione del romanzo e, certo, al punto in cui il “plot” sta per sciogliersi, non si sia mai meditato com’esso in effetti meritava; non solo nei riguardi del personaggio di Renzo, ma nell’economia dell’intero romanzo. Forse questo è dovuto alla lettura sempre un po’ preventivata che se ne compie; quella lettura che interessatamente (per interessi, cioè, di mero “laicismo”) parte già con la sicumera d’aver capito ciò che nel romanzo in verità non esiste: cioè a dire la divisione a priori dei personaggi in “buoni” e “cattivi”. Una divisione che proprio lo svolgimento degli stessi personaggi e lì, a negare; anzi, a distruggere.

Questo non è solo provato dalle “conversioni” che testificano la continua possibilità di passare dalla schiavitù del “male” all’abbraccio di un bene, ma, con ben maggior forza, della possibilità di compiere il cammino inverso.

Per l’appunto in tale frangente Manzoni ci presenta Renzo, nel succitato episodio finale. Proprio a lui, a un “buono”, anzi a una vittima del potere, accade di venire investito dalle tentazioni del male: accade anzi di essere lì, lì per precipitarsi dentro e così annullare tutta l’esperienza “iniziatica” e “confermativa” che aveva costruito in sé lungo il duro e complesso “calvario” della storia. A salvarlo è Cristoforo; anche lui un convertito.

Manzoni, insomma, sembra dirci che se non può certo proclamarsi regola, è umana norma che solo la conoscenza del male permetta a un uomo l’approdo alla possibilità di un’incarnazione e d’una testimonianza di una verità e di un bene che non siano inservibili astrazioni. Così anche dall’enorme rischio in cui sta per precipitare poco prima che il romanzo si chiuda, cade su Renzo quella mistione di luci e d‘ombre che ne consolidano la statura di grande personaggio “mediano”; anzi di grande personaggio “comune”.

In tal senso è ben certo che Renzo possa e debba essere considerato, in mezzo ai grandi personaggi “alti” o “eroici” che fin lì fungevano da protagonisti delle trame epiche, drammatiche e narrative, una creazione calmamente, ma proprio per questo, possentemente rivoluzionaria.

Non è detto che le barricate debbano essere sempre collocate sulle fasce estreme. Il caso dell’irruzione “normale” che un personaggio come Renzo compie nella storia della letteratura è sicuramente da “barricata” almeno in rapporto a quel senso, più che comune, “comunitario” dell’esistenza la cui proposizione era a quei tempi (e pel il vero, torna ad esserlo anche oggi) un atto duramente contestativo nei confronti del Potere che al senso comune, perché “comunitario” e comunioniale, s’opponeva; e s’opponeva tanto in termini ideologici, quanto in termini economici: in termini, insomma, di sopraffazione. Come testimonia la violenza che Don

Rodrigo compie su Renzo e Lucia negando loro il diritto “comune” e “comunionale” di portare a compimento, tramite il matrimonio, il loro amore. L’appartenenza, torniamo dirlo grandemente rivoluzionaria, di Renzo alla classe bassa e la sua enucleazione, come atto figurale ed espressivo, a ciò che, anche linguisticamente era ed è assolutamente “comune” si evincono subito: direi dal suo primo e stesso apparire: se presentandolo Manzoni è come indotto a spiegarci il perché del suo nome. Sentite: “Lorenzo, o come dicevan tutti, Renzo, non si fece molto aspettare”.

Il personaggio viene, insomma, alla ribalta della storia col suo diminutivo feriale e quotidiano; ma proprio da questa entrata riceve subito la potenza della sua fragilità e del suo rischio, e di questo e di quella l’assoluta novità. Novità che trova, poche righe dopo la conferma caratteriale, allorché del suo modo di andare verso la casa di Don Abbondio, Manzoni scriverà che vi correva con lieta furia. In questo straordinario ossimoro, è probabile che sia contenuto tutto il grumo centrale del corpo psicologico, ma anche del corpo fisico, di Renzo. Egli, infatti, agirà sempre tra lietezza e furore. Anzi il romanzo sembrerà svolgersi perché Renzo possa, alla fine, coniugare i due contrari giusto come li aveva coniugati all’inizio; ma ora, conoscendone i vizi e le virtù positive che contenevano, e le difficoltà che comporta il tenerli uniti e trasformarli in atto positivo. Tale acquisita conoscenza non implica nessuna certezza definitiva. Il rischio che l’ossimoro si spacchi e con lui Renzo perda il suo stesso centro è sempre lì in agguato.

Questo è tanto vero che in tale agguato, Renzo rischia di cadere quando ormai tutti saremmo disposti a giurare sul fatto che, avendo egli compiuto l’”iniziazione”, essendosi egli “confermato”, tutto in lui sia definitivamente cementato. Insomma Renzo, l’umile e “buono” Renzo è lì a dimostrarci, non solo che la bontà e la virtù sono conquiste difficili e mai chiuse, ma altresì che il protagonista “umile” e “comune” non possiede meno e meno terribili sottofondi psicologici dei protagonisti “superbi” e “alti”. Se  non è rivoluzione umana, oltre che letteraria, questa, davvero non sapremmo dove trovarne.

Ora che tutto questo avvenga in una sorta di sublime lucidità “bassa” e che proprio per questo tanta fatica s’è sempre fatta a coglierne l’enorme peso innovativo, sta solo dimostrare la nostra cattiva abitudine di lettori nel prendere, sempre, la violenza per forza e l’urlo per affermazione della verità e degli umani diritti. Anche in questo Manzoni, e con lui Renzo, sono lì a correggere un vizio che ormai è diventato una sorta di “ron ron“ vacuamente nazionale; e purtroppo forse anche “nazionalpopolare”.

didascalia: Alessandro Manzoni – Resegoneonline

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